È il 1989: padre Pozzi, a un anno dalla fine del suo incarico presso l’università di Friborgo, ricorre alla nota metafora silesiana della «rosa senza un perché» – da lui definita déconcertante, «sconcertante» – per intrecciarla con un’affermazione di Hölderlin («Die Worte wie Blumen enstehen») e farne l’immagine dell’intrinseca caducità della parola poetica stessa, a sua volta riflesso più generale, secondo una nuova forma di contemptus mundi, della «vanità delle cose umane»: «Est-ce que vainement Claudel avait proclamé "Aucune rose, mais cette parole parfaite", s’il n’est désormais plus vrai que, avec Hölderlin, «die Worte wie Blumen entstehen»? Où sont les roses? "Ubi rosae"? Où se lèvent encore comme des idées pures et suaves ces roses-là, "parole parfaites"?».
Mentre Hölderlin affidava al verso il compito di esprimere un atto di appropriazione cognitiva – la capacità umana di nominazione affidata all’uomo dagli Dei alla fine dei tempi, dunque una resolutio hominis – per padre Pozzi la similitudine holderliniana non è che la conferma della comune natura di fiori e parole. L’assenza di fondamento cui allude il Silesio non è più dunque solo riferita alla rosa, ma alla stessa parola umana. A questo senso di aleatorietà, di una parola instabile e mai definitiva, padre Pozzi consegna non tanto un ragionamento sulla poesia in astratto, quanto, nello specifico, il suo stesso saggio Des fleurs dans la poésie italienne: «Ici notre parabole, au nom de la rose, est terminée. Fleurs de papier, les paroles sont en train d’étre dévorées par l’indendie universel. Voilà pourquoi j’ai dit : - Une fleur ! -».
Il paragrafo, imbastito sul recupero di echi che rinviano a Baudelaire («[…] ou bien encore sont elles de fausses fleurs, de papier, de chiffon et de fil de fer, des fleurs erreurs contre le vrai, contre le bien, contre le beau lui», Léon Bopp, Psychologie des «Fleurs du mal»), ne indica in realtà anche un superamento, nell’allusione a quell’«incendio universale» che unisce teorie presocratiche, gnosi e Sacre Scritture, concordi nel credere – le ultime stante il parallelismo con il «diluvio universale» nell’Antico Testamento – alla consumazione, alla fine dei tempi, di ogni elemento spurio e di male: l’avvento dell’Apocalissi. Il fuoco è immagine del logos, «sostanza fondamentale del cosmo ed espressione simbolica del dinamismo che lo anima» (Maurizio Marin, Il logos di Eraclito: la forza dell’opposizione); è «divorante» e «universale» poiché, come spiega Clemente Alessandrino, «il fuoco si trasforma in mare o umido, il mare in terra, cielo e poi tutte le altre cose». Ma vale anche il dubium espresso a proposito di questi autori: il fuoco, immagine del divino, condannerà solamente o salverà? Per padre Pozzi, non vi sono esitazioni: tale incendio, pronto a impadronirsi, al di là del bene e del male, di qualsiasi «fiore», precede la visio beatifica, la sola a poterci garantire non solo, come in Hölderlin, la capacità di pronunciare degnamente il nome di tutte le cose (e quindi anche della rosa) ma di carpirne fino in fondo la vera natura. Con questa immagine conclusiva lo studioso – con un appello evangelico ben noto: Nolite timere (Mt 14, 27) – termina il suo ragionamento, nonché il percorso quasi ventennale svolto sul tema dei fiori nella letteratura italiana, indicando nella beatitudine l’orizzonte ultimo di qualsiasi umana speculazione e il compiersi della scienza: «Mais n’ayons pas peur. S’il y a un lieu où existent les fleurs, dit Vassilij Rozanov, c’est bien au-delà du tombeau; cette rose que le "Señor mostrarà a mis ojos muertos"».
Significativamente, padre Pozzi pone fine alla sua indagine sulla tematica dei fiori nella letteratura italiana scegliendo la stessa casa editrice – le Éditions universitaires de Fribourg Suisse – con la quale essa aveva preso avvio. Esce infatti, nel 1974, La rosa in mano al professore, testo – riecheggiante sin dal titolo il Marino – subito salutato come «fondativo» per l’esemplarità della ricerca ivi condotta e lettura per molto tempo «obbligata» negli studi sul simbolismo floreale. Mentre Silesio considera la rosa un fiore «senza un perché», padre Pozzi parte dal presupposto che nemmeno sulla carta, in realtà, un fiore «nasca» dal nulla: anche i fiori – le rose in particolare – hanno un «vissuto» (il riferimento alla tradizione) né sfioriscono senza prima aver lasciato traccia di sé tramite celebri fioriture. Per questo, abbandonata qualsiasi indole contemplativa, la vita di un fiore entro i testi letterari – soprattutto se una rosa – va misurata, scandita, studiata, per registrarne involuzioni e «progressi». Tra quelle pagine, attestazione di un tema che nasce e rivive molte volte, Pozzi lascia così affiorare un’ontologia della rosa e un inno alla complessità della vita naturale, tra aporie e riconquiste del fiore sulla natura circostante, che può essergli avversa: «La singola fase – ammonisce l’illustre italianista – non significa nulla in sé e per sé, soltanto la combinazione di due o più fasi è apportatrice di significato». Il riferimento è proprio al ciclo di vita di un fiore: il suo fiorire, il suo sfiorire e talvolta – sin da ora balugine di un Oltre – il suo rifiorire. La sequenzialità, tuttavia, avverte Pozzi, non è d’obbligo: la perdita, la caduta, la sconfitta può essere il punto da cui si parte o, viceversa, l’esito ultimo di tutti gli sforzi; anche la natura, oltre alla sua ciclica rinascita, conosce le sue sconfitte, lo scacco, il vicolo cieco. Dal «bene» al «male» o dal «male» al «bene»: per Pozzi – annuncio di quello che sarà poi la conclusione dei Fleurs dans la poésie italienne – anche la vita di un fiore, così come ce la descrivono i testi letterari, può richiamare ed essere letta entro queste categorie. Attraverso di esse si ricrea, nella letteratura, un ordine singolare: chi, nei toni e negli stilemi più classici, nella rosa vede una bellezza caduca (il Tasso della poesia Vedrò da gli anni in mia vendetta ancora, ad esempio, o l’Ariosto, nel 15esimo capitolo del suo Furioso) o l’annuncio di una morte violenta (è il Marino di Questa ch’l bianco piè di Citerea); o chi, per contro, ne elogia la bellezza perdurante (il Ronsard del Je me veulx plus que chanter de tristesse) e ne fa il simbolo di un pericolo mortale scampato (ritorna il Tasso, accanto all’Adone). Mentre il campo degli emblemi poetici si allarga, gli schemi restringono la visuale; padre Pozzi tuttavia avverte: «Ci sono casi – attestati – che sfuggono». Sfugge, soprattutto, il «miracolo», quella rosa, ad esempio che i narratori ci raccontano essere fiorita in autunno o, addirittura, d’inverno: eventi «intempestivi», per la letteratura simbolo spesso di qualcosa che si manifesta «precocemente», a differenza della natura, per la quale una rosa fiorita d’inverno rimane un fiore «tardivo», in ritardo sui tempi. Lo straordinario interpella: così i personaggi della finzione letteraria, attraverso queste fioriture singolari, vengono chiamati, secondo lo studioso, o a godere dell’attimo fuggente – unico, straordinario, la grazia immeritata – o a dedicarsi con più vigore a penitenza, sopresi e in qualche modo danneggiati da questa fioritura «fuori tempo». L’ombra della moralità apre lo spazio al «Religioso», ma a questa altezza cronologica, per padre Pozzi, valgono, come unico riferimento religioso, solo alcune sporadiche pagine citate en passant dei Salmi e del libro di Giobbe.
Diversamente accade nel 1987, quando, a distanza di poco più di un decennio, padre Pozzi interrompe la linea di continuità che lega i due testi pubblicati con le Éditions universitaires, per dare alla luce il saggio, edito questa volta da Casagrande, Rose e gigli per Maria. Un’antifona dipinta. Lo studio della simbologia floreale incrocia qui gli altri interessi di padre Pozzi per l’iconicità della parola, come avrebbe poi dimostrato in un altro testo divenuto celebre (Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993). Questa volta, infatti, lo spunto è offerto da un’ignota natura morta della prima metà del Seicento. In questo caso la domanda di fondo – solo intuita nella Rosa in mano al professore e diversamente dalla rosa immaginata dal Silesio, nata, cresciuta e fiorita senza un «motivo» – è proprio «perché la rosa?». La sfida, infatti, è nel commento al dipinto (raffigurante un vaso di rose circondato da quattro mazzi di gigli), tenuto conto che la pittura «rappresenta al vivo la morfologia di un fiore, i suoi colori, le sue qualità tattili, ma non può far intendere che siano motivazioni di una metafora». Le altre proprietà del fiore, su cui gli scrittori imbastiscono infinite metafore, nel dipinto sfuggono «irreparabilmente», non potendo essere raffigurate o descritte (ad esempio, il suo profumo); con esse, anche la possibilità di dare un’interpretazione univoca al fiore dipinto.
L’avventura ermeneutica intorno all’interpretazione del quadro, per altro, è quanto mai singolare. Essa incomincia nel 1985, quando la Galleria Lorenzelli di Bergamo convoca un nutrito gruppo di esperti per cercare di interpretare l’opera e, in particolare, il vaso di rose che vi si staglia al centro. La discussione è animata, ma le opinioni convergono su un punto: il dipinto deve alludere a un simbolismo di carattere religioso, riferito specificamente a Maria. Gigli e rose, infatti, «in moltissime ricorrenze delle sue lodi, indicano insieme l’unica persona della Madonna».
Tuttavia, nessuno ipotizzava che il messaggio trasmesso potesse essere univoco, rispecchiando la polisemia dei simboli religiosi, spesso cangianti, come osserva padre Pozzi, sotto l’impulso della teologia e del progresso della pietà: nuove feste, nuove devozioni, nuovi dogmi. Solo di una cosa, secondo l’illustre italianista, si può essere certi: vi è un ordine tra i significati. Non di rado mentre il giglio spiritualizza «per negazioni», la rosa, infatti, concretizza per «affermazioni»: la verginità vs. la maternità di Maria; l’innocenza vs. la pazienza nel sopportare effetti del peccato sul Figlio; la castità vs. un amore «incarnato», ovvero la carità per il prossimo.
Qui padre Pozzi attinge per la prima volta alla mistica lungo la sua riflessione: lo studioso ricorda, infatti, il trattato di teologia mistica di Maximilian van der Sandt, Maria flos mysticus, accanto a testi diffusissimi come il De laudibus Beatae Mariae di Riccardo di San Lorenzo, testo del XIII secolo, riedito nel Seicento sotto la falsa attribuzione a S. Alberto Magno e riproposto per estratti in appendice. Tale filone mariano, inoltre, si attiene principalmente a un testo le cui riletture mistiche sono ben note: il Cantico dei Cantici, che serve come fonte di ispirazione per la descrizione di tutte le bellezze mariane, interiori ed esteriori. Sono testi, in generale, in cui il motivo per il quale Maria viene paragonata a una rosa è sempre esplicitato, chiaro, trasparente. Talmente evidente da poterlo esprimere, appunto, tramite un avverbio consecutivo: «Maria Rosa. Perché – scrive Riccardo di San Lorenzo – curva e bassa di statura nell’umile obbedienza secondo la dottrina dello Spirito Santo che si rivolge a lei dicendo: “Odi, figlia, e vedi, e curva il tuo orecchio” (Salmo 44, 11)».
A padre Pozzi interessa tuttavia motivare non solo la presenza della rosa sulla tela, ma l’esistenza stessa del quadro: non solo «perché una rosa», ma, soprattutto, «perché dipingerla»? Nell’impossibilità di conoscere l’identità dell’Autore, si può tuttavia osservarne l’inventiva: le rose, poste al centro, sono circondate da gigli. Un fatto che rievoca, nella mente dello studioso che è anche un religioso e le cui giornate sono scandite dalla recita dell’Ufficio delle Ore, un versetto ben noto dei cosiddetti antifonari, pronunciato ad alta voce dagli oranti, sin da tempi antichissimi, in festibus Mariae Virginis, e in particolare nel Mattutino della festa dell’Assunta: «Et sicut Dies verni circumdabant eam flores rosarum et lilia convallium» («E come un giorno di primavera la circondavano fiori di rose e gigli delle convalli»). Da qui la conclusione e il suggello, secondo Pozzi, della disputa sul quadro: non può infatti che trattarsi di una sorta di «antifona dipinta», come una sorta di sostituzione di «un atto forzatamente intermittente»: la preghiera. «L’antifona dipinta – conclude Pozzi – veniva ad essere per il devoto un silente canto senza amen, analogo a quello celebrato dai Santi intorno a Maria regina del Cielo».
Anche la conclusione cui giunge lo studioso è così, per certi versi, di carattere mistico. L’interpretazione del dipinto fornita da Pozzi non è, infatti, solo frutto dello sguardo di uno studioso contemporaneo sull’opera, ma anche recupero di teorie e tesori nascosti nei trattati mistici secenteschi. In essi, l’idea di una «preghiera» o, addirittura, di una «estasi» perpetua, continuata nel tempo, è infatti tipica. San Francesco di Sales è notoriamente colui che teorizza e approfondisce per primo questa categoria: «La vita deve essere un ratto continuo e un’estasi perpetua di attione e di operatione» (Trattato dell’amor di Dio).
Nei testi agiografici stessi, secondo un modello invece ignaziano, le mistiche sono definite «contemplative in azione»: figure di monache che, nei loro monasteri, pur pregando e sperimentando grazie mistiche particolari, potevano continuare a cucire, cucinare, pulire. Così, ad esempio, Orsola Beincasa, cui Dio dona «l’estasi perpetua» come segno per il mondo – «Il segno sarà la continua estasi, quale per qualunque cosa ma ti potranno levare fino alla morte» (Giovanni Bonifacio, Vita della veneranda serva di Dio Orsola Beincasa, Venezia, Catani, 1671, p. 60) o l’estasi «continua» che si attribuiva già a San Tommaso d’Aquino, da cui sarebbe scaturita la stessa Summa: «E giunse a sì felice unione con Dio, che nella vita estatica sovrhumana sperimentò un ratto continuo di dolcezza e d'affetto verso il medesimo, ed un’estası quasi perenne nell'intelletto, sollevato sopra la natural sua apprensione» (Paolo Frigerio, Vita di S. Tommaso d’Aquino, Roma, Ghezzi, 1668, p. 131).
Così, «l’antifona dipinta» dell’Anonimo non è solo immagine di un’azione – il pregare – ma figura stessa dell’orante che compie esemplarmente l’azione: appunto il mistico. Lo sfondo è sempre mariano; infatti, sarebbero stati anzitutto i membri della Sacra Famiglia, secondo gli oratori secenteschi, a sperimentare per primi, alla presenza di Gesù, un’«estasi perpetua»: Giuseppe («Ma S. Gioseppe è stato rapito in corpo e in anima, e è stato rapito per lo spatio di dodici anni interi», Etienne Binet, Il ritratto dei divini favori fatto a S. Gioseppe e della famiglia di Giesù, Roma, Mascardi, 1640, p. 44) e Maria («Sola la Vergine dopo Cristo sta in estasi continua senza che i sensi turbino la sua quiete, truova nelle cose domestiche fomento dell’union con Dio […], Nicolò Riccardi, Ragionamento sopra le litanie di Nostra Signora, Venezia, Tomasini, 1626, p. 360).
La letteratura religiosa è dunque l’approdo ideale del discorso di padre Pozzi sulla «rosa». Mistici e religiosi sembrerebbero rivelargli la sua vera essenza di fiore sempre «in relazione», costante rimando a un Altro. Rose e gigli per Maria, in particolare, è un testo di svolta: principia dal presupposto, fino ad allora non considerato dallo studioso, che ci possa essere un discorso «religioso» sulla rosa e termina con il recupero implicito di una categoria mistica.
Il saggio Des Fleurs dans la poésie italienne rappresenta l’approdo di questo discorso. Testi religiosi e testi profani si ritrovano qui a «comunicare», lasciando che le suggestioni raccolte nei primi confluiscano naturaliter a fianco degli stimoli dati dai secondi.
Istituendo tuttavia un ordine chiaro. Sulla correlazione di questi due ambiti, Pozzi è infatti abbastanza univoco e chiaro. Il Tasso stesso, nota ad esempio lo studioso, finché s’interessò della valenza spirituale dei fiori, non si preoccupò di studiarli da un punto di vista scientifico; mentre nel Petrarca, il cui Canzoniere è ricco di similitudini floreali, i riferimenti biblici non sono che ricordi indiretti.
Analogamente, Pozzi dapprima presenta le osservazioni sull’evolversi della metafora floreale in testi e autori impegnati sul mero fronte poetico non interessato al religioso (la nascita di quelle discipline scientifiche che hanno come oggetto lo studio del mondo vegetale, in particolare l’affermarsi della botanica come vera e propria scienza e il conseguente avvio della stampa scientifica, ad esempio i manuali di floricultura), mentre per spiegare lo sviluppo della metafora floreale in testi religiosi attinge abbondantemente alle nozioni acquisite nell’Antifona dipinta. Con qualche nuovo nome che fa qui la sua comparsa, in particolare il Cantico di S. Francesco, dimostrazione di come «les fleurs dans le cas de la structure cosmique représentent l’élément terre».
Infine, prima della ben nota conclusione, dalla quale siamo partiti, l’attenzione dello studioso è catturata dalla Divina Commedia. Dante, trovandosi a un passo dall’accedere al Paradiso, posto cioè sulla soglia della contemplazione oltre la quale la lingua si estingue, pronuncia la fatidica strofa: «Nel giallo della rosa sempiterna/ che si dilata ed ingrada e redole/ odor di lode al sol che sempre verna». In questo caso la rosa, secondo Pozzi, è rappresentazione dell’«expérience intermédiaire entre le sensible et l’inintelligibile, entre le nommable et l’innommable». Cui aggiunge un concetto eckartiano: «Pour évoquer un concept de Eckhardt […] elle semble bien désigner la puissance de Dieu qui fleurit et verdoye dans sa déité et l’âme humaine qui fleurit dans sa puissance pure». Prima che la riflessione si apra sull’immagine finale, alla pagina successiva, della beatitudine, il riferimento è ancora una volta alla mistica, come confine ultimo della speculazione sulla rosa.
Avido lettore e grande estimatore delle Estasi di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, padre Pozzi non può tuttavia impedire che siano proprio questi testi, infine, a porre un limite alla sua animata speculazione mistico-religiosa sulla rosa. Quella «rosa» tanto bella, studiata a fondo dai ricercatori, cantata dai poeti, non solo potrebbe non avere realmente un «perché» (Silesio), ma potrebbe anche non essere – secondo la religiosa fiorentina – più consistente di un’illusione.
Potrebbe essere – è il monito della grande mistica – lo strumento umile messo tra le mani di poeti e musicisti, eppure rifiutato da chi fa un’esperienza autentica di Dio. Proprio come Dante è chiamato al superamento dell’immagine, che lo conduce sulla soglia oltre la quale c’è il silenzio, la negatio rosae – riconoscerne la natura di simbolo «povero» – può essere – contro tutti gli studiosi che vi dedicano alacremente la propria speculazione, compreso lo stesso Pozzi – il doloroso requisito richiesto a chiunque voglia Deum capere et gustare. Sulla scia della grande tradizione mistica inaugurata da Dionigi l’Areopagita, Maria Maddalena percepisce, infatti, che fermarsi prima – alla rosa, al giglio, alla violetta – inibisce una consapevolezza fondamentale: solo Dio può significare il divino.
Et ancora che sapessi la Vergine non essere propriamente né cedro, né palma, né cipresso, né rosa, né uliva o cinnamomo, che sono per similitudine delle sue eccellenti virtù, non dimeno, non mi pareva per quella cognitione, che all'hora mi era data della sua eccellenza e grandezza, di trovare né in cielo, né in terra, o fussi luna, stelle, sole, o Angeli chi si potessi assomigliare a tanta sua grandezza e dignità, se non Dio solo (Quaranta Giorni, 15 agosto, Solennità dell’Assunzione).